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Distruggere per ricostruire. Il processo estetico dietro i décollage di Mimmo Rotella.

C'è qualcosa di vitale nella distruzione. Certo, sembra un concetto contraddittorio, ma ogni fine implica indirettamente un nuovo inizio. Guardando alle teorie filosofiche ed estetiche, l'idea di distruzione come fase inevitabile per conseguire innovazioni e aprire la strada a nuove possibilità è diffusa e consolidata. Non vi sono limiti geografici e, considerando gli ultimi secoli, possiamo ritrovare lo stesso atteggiamento passando dalla Germania del XIX secolo al Giappone contemporaneo.


Soffermandosi sulla Germania ottocentesca, è possibile identificare tale processo nella scuola di pensiero di matrice kantiana. Immanuel Kant (1724-1804) è noto come una delle menti più influenti della filosofia moderna occidentale e, nella Critica della Ragion Pura (1781), attua il suo personale processo di distruzione-costruzione. Il filosofo prussiano, di fatto, supera i precetti della filosofia tradizionale e, in particolare, della metafisica. Più generalmente, Kant rifiuta e distrugge le teorie del passato sull'esperienza umana, in favore di nuove idee in grado di sintetizzare empirismo e razionalismo. Il suo pensiero, fondamentalmente, pose fine alla tradizione teologico-metafisica sulla prova dell'esistenza di Dio. Proponendo un nuovo modo di pensare e prendere posizione contro le consuetudini, Kant ha dato luogo a un cambiamento significativo. La scelta di distruggere una mentalità comune, una posizione radicata, per ricostruire qualcosa di libero da preconcetti è più frequente di quanto si pensi e riguarda da vicino anche il mondo dell'arte.


In White [1] (2008), per esempio, il designer Kenya Hara propone un ulteriore approccio al sistema di distruzione-costruzione. L'artista e scrittore giapponese, infatti, a differenza di Kant, trova nelle tradizioni visive e filosofiche del suo Paese le migliori premesse per esaminare il valore del “vuoto”, da intendere come prima conseguenza della “distruzione”. A tal proposito, è necessario approfondire un aspetto filosofico-culturale dello shintoismo, la principale religione del Giappone. Lo Shinto è volto al culto dei kami ("dei"), essenze spirituali in grado di rivelarsi sotto molteplici forme. Secondo la tradizione shintoista, animali, alberi, rocce, umani e persino oggetti, possono racchiudere in sé la pura natura dei kami che, liberi di manifestarsi in qualunque luogo e corpo, possono altresì colmare anche il “vuoto”[2].


Il fatto che un kami possa apparire ovunque ha profondamente influenzato il pensiero di Kenya Hara e la teoria esposta nella raccolta White è il frutto di tale ispirazione. Seguendo l'idea che tutto può essere “riempito” con qualcosa, così come il vuoto può essere colmato dalla presenza dei kami, l’artista decide di servirsi del colore bianco proprio per simboleggiare la vacuità. Secondo Hara, il vuoto non comporta il "nulla" ma, al contrario, è solo una fase di infinite possibilità. Semplificando, il maestro giapponese sceglie di rimuovere qualsiasi elemento accessorio, come il colore, dai propri oggetti, creando “un vuoto con un potente centro di gravità, verso il quale la coscienza e la creatività delle persone sarebbero state attirate"[3], aprendo così la strada a nuove possibilità. Il vuoto non è un limite; è solo una condizione di incalcolabile potenzialità. Rimuovendo ogni elemento accessorio dalle sue creazioni, l'artista attua la sua “distruzione” e trova, nel conseguente vuoto, il campo prescelto per un nuovo inizio che, libero da vincoli, mostra la coincidenza di fine e origine.


The Italian master Mimmo Rotella painting in his studio
Il maestro Mimmo Rotella nel suo studio

Considerando il vuoto come conseguenza principale della distruzione, possiamo comprendere come distruggere qualcosa appaia necessario per segnare un cambiamento nel modo ordinario di pensare e agire. È possibile distruggere idee, tradizioni e preconcetti, ma anche ideali e standard estetici. Questa è l'essenza delle avanguardie, la volontà di riformulare le tendenze comuni. Tuttavia, la storia dell'arte contemporanea ci insegna, attraverso l'opera di Mimmo Rotella (1918-2006), che il concetto di distruzione-costruzione può essere esplorato sia metaforicamente che esteticamente.


Conosciuto in tutto il mondo per il suo stile iconico, l'artista italiano è stato una delle menti più interessanti e creative durante il secondo dopoguerra. Rotella ha proposto la sua idea di distruzione-costruzione attraverso l’ideazione dei décollage. Il décollage è, fondamentalmente, l'opposto del più popolare collage e viene creato rimuovendo e tagliando frammenti di immagini già esistenti. Questa tecnica è legata alla pratica dei manifesti lacerati e ottenne grande successo nel corso degli anni '60.


Analizzando la produzione di Rotella possiamo facilmente trovare un'esplicitazione visiva del binomio distruzione-costruzione, ma ciò che il maestro fece fu molto più di un mero atto fisico. È importante, infatti, precisare che l'idea dei décollage nacque durante una fase di crisi creativa per l'artista ed è interessante osservare che scelse proprio di distruggere qualcosa di pre-esistente per riplasmare il proprio linguaggio espressivo. Sedotto dall'estetica dei manifesti degli anni '50 e '60, Rotella decise di distruggere i poster sia per celebrare il gusto del periodo, conferendo dignità artistica ad oggetti comuni; sia per innovare il suo approccio creativo. La fine dei manifesti, rappresentata da tagli e strappi, è di fatto la nascita dei décollage. Grazie al lavoro di Rotella, la teoria del "distruggere per ricostruire" raggiunse la sua più ampia accezione e un poster tagliato a pezzi divenne il simbolo dell'eterna rinascita.




 

Note:


[1] Il libro White esplora il bianco come elemento di design. In particolare, Hara rielabora il concetto di “vuoto”, tipico delle tradizioni filosofiche-culturali del Giappone, applicandolo ad una “nuova” idea di design; [2] L'architettura shintoista presenta numerose varianti strutturali. In generale, la costruzione di aree sacre ebbe inizio in Giappone già nel periodo Yayoi (500 a.C.- 300 d.C.). Elementi del paesaggio come rocce, cascate, isole e in particolare le montagne erano luoghi che si riteneva fossero in grado di attrarre i kami. In origine, i luoghi sacri potevano essere semplicemente contrassegnati da un torii e una recinzione vuota, all’interno della quale potevano manifestarsi i kami. Nel tempo le strutture temporanee si sono evolute in strutture permanenti dedicate alle divinità e, tra i molteplici elementi che compongono l’area del santuario, l’edificio più sacro prende il nome di honden: la sala principale dedicata esclusivamente ad uso del kami consacrato che può essere sia incorporeo, facendo sì che la sala risulti vuota, sia rappresentato da uno specchio o una statua votiva; [3] H. Kenya, 日本 (Japanese Design), Iwanami Publishing, 2011;


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